Spigolo Casanova – Marchisio, nuova via d’arrampicata al Popera (Dolomiti)

Il racconto di Nicola Marchisio che, insieme a Christian Casanova, ha salito lo spigolo est del Monte Popera, Dolomiti del Comelico e di Sesto. Una via estetica però, come avvertono i primi salitori, spesso su roccia marcia e con dei lunghi runout tra le protezioni.

La via era già stata tentata nell’ ’85 dal fortissimo Gildo Zanderigo e Bruno Martini, storico gestore del rifugio Berti, e nel ’95 sempre da Zanderigo, ma questa volta con Stefano De Martini e Francesco De Martini. In quest’ultimo tentativo la cordata era riuscita a raggiungere la vetta passando decisamente più a destra in piena parete, rinunciando allo spigolo a causa della roccia troppo “marcia” per potersi proteggere con il solo uso di chiodi. Informati della cosa dallo stesso Zanderigo, decidiamo di portarci dietro il trapano ed alcuni spit, con l’idea di avere delle soste sicure ma di limitare l’uso dei tasselli ai soli tratti non proteggibili e potenzialmente pericolosi.

Tutto è iniziato il primo agosto con un messaggio mandatomi dal mio compagno di corso (corso aspiranti guide alpine interregionale) Christian Casanova, in cui compariva la foto di una parete da sogno con una linea rossa tracciata su uno spigolo e una semplice frase: “venerdì vuoi venire ad aprire questa incredibile via? Sarebbe strafigo andarci assieme.” Deciso, si parte!

All’alba del venerdì abbandoniamo il biv. Battaglion Cadore e alle 7,30, dopo un’ora di ghiaioni e 175 metri di zoccolo, siamo finalmente all’attacco della via vera e propria. Il primo tiro parte più a sinistra dei vecchi tentativi, su una facile placca di roccia buona ma, una volta entrati nel diedro-camino cambia, tutto: roccia molto marcia ovunque e protezioni buone praticamente inesistenti! Christian comunque riesce a salire il tiro utilizzando un solo spit piazzato, tra l’altro, molto in alto. Lo raggiungo in sosta e finalmente tocca a me.

Il secondo tiro è un bel diedro sbarrato a circa un terzo da un tetto che, visto da qui, non sembra per nulla semplice da superare. Raggiunto lo strapiombo riesco a piazzare un buon friend e a superarlo, qui la roccia è decisamente migliore e qualche buona protezione si riesce a mettere. Il tiro seguente è un diedro leggermente strapiombante che porta alla base dello spigolo vero e proprio.

Ci siamo! Questa sarà sicuramente la parte più impegnativa della via, ci troviamo davanti un muro leggermente strapiombate fatto di roccia gialla incrostata di licheni e con tratti che sembrano così marci da star su per miracolo. Parte Christian. Fatti i primi 8 metri senza mettere nulla riesce a raggiungere un terrazzino di circa 20 cm, da qui non può proseguire senza mettere uno spit, inizia quindi a recuperare il trapano. Non so bene come (data l’esiguità della tacca che tiene con la mano sinistra) riesce a mettere il tassello e a rinviare, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti e due.

Ma non è finita qui, continua a scalare scomparendo dietro lo spigolo, a me non resta che continuare a dar corda e incoraggiarlo. Dopo una quindicina di metri sento di nuovo il rumore del trapano e poi dopo 15 minuti lo vedo ricomparire e montare la sosta. Lo raggiungo in sosta e mi complimento con lui, ha aperto il tiro su roccia molto precaria con solo due spit e tre friend sicuramente non a prova di bomba.

Guardiamo cosa ci aspetta e capiamo subito che sarà ancora dura, la parete continua ad essere leggermente strapiombante, su roccia più buona ma sicuramente più difficile. Essendo indubbiamente il più forte dei due, parte di nuovo lui. Inizia a scalare iperconcentrato, fa un primo passo bello duro e continua a salire senza mettere nessuna protezione per 15 metri. Piazza due protezioni passando le due mezze sfalsate, riposa un attimo e riparte. Risale un fessurino scalando in modo divino, continua a salire ma non riesce a mettere nessun friend e non può fermarsi a mettere uno spit. Nessuno dei due dice una parola, la concentrazione è al massimo. Scala preciso e velocissimo, dopo 20-25 metri riesce finalmente a mettere un friend, poco dopo lo sento lanciare un urlo liberatorio bellissimo. Quell’urlo mi fa capire che ce l’abbiamo fatta, siamo fuori dalle difficoltà e la felicità arriva come un treno.

Lo raggiungo incredulo, ha aperto un tiro allucinante, 40 metri di 7a con un passo molto duro e poi continuità proteggendosi solo in un punto e facendo un run out di 25 metri fin quasi in sosta. Non c’è nulla da fare, questo ragazzo è di un altro pianeta. È mio l’onore di raggiungere la cima con un tiro di 40 metri non difficile.

Alle 13,30 finalmente ci abbracciamo in cima, consci di aver fatto una salita che rimarrà indelebile nei nostri ricordi. Siamo scesi dalla normale al Popera e abbiamo raggiunto il rifugio Berti, dove Bruno ci ha fatto reintegrare in un attimo tutti i liquidi e le calorie bruciate offrendoci un numero imprecisato di birre e un piattone di pasta.

Ringrazio il mio socio Christian per avermi dato questa opportunità rara per un cuneese, Bruno Martini per l’accoglienza squisita e, anche se non lo conosco personalmente, Gildo Zanderigo per le informazioni e le dritte.

di Nicola Marchisio

SCHEDA: Spigolo Casanova-Marchisio al Popera

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Marcello Bombardi: da Siurana al sogno Olimpico

Intervista al fortissimo climber modenese Marcello Bombardi. Dalle sue recenti salite in falesia a Siurana in Spagna ai suoi allenamenti per le Olimpiadi di Tokyo 2020. Di Fabio Palma.

Ne hanno subito parlato anche i social spagnoli perchè il Veni, vidi, vici di Marcelo Bombardi, a Siurana, non poteva passare inosservato. Anche perchè, fra i “collezionisti” di tiri duri e specialisti in terra spagnola, Marcello è un nome nuovo, anche se il suo livello, per chi lo ha visto nella gare o per caso osservato allenarsi, è assolutamente mostruoso. Marcello è uno dei pochisismi al mondo capace di raggiungere una finale di Coppa del Mondo o Campionato del Mondo sia in Lead che Boulder… siamo ben oltre l’eccellenza, insomma. In Italia Marcello è Campione Italiano in carica di Boulder ed è già stato Campione Italiano Lead. Insomma, è una delle punte di diamante della Nazionale Italiana che sogna le Olimpiadi di Tokyo 2020, pur con problemi di Federazione di un certo peso.


Allora Marcello, ti piace anche la roccia, quindi? O è solo allenamento?

Sì, certo. Le gare non mi lasciano molto tempo per toccarla, ma finite le gare di Coppa del Mondo in Cina a novembre ho iniziato subito col boulder e le vie su roccia, mi piace molto. Io vengo da Modena e quindi sono nato con la plastica, la più vicina falesia è Bismantova… mi piace scalare anche su vie facili.

E hai scelto Siurana per le vacanze di Natale
Sì, Margalef non mi attirava molto, non sono uno scalatore che apprezza i buchi. Siurana mi piace come stile e anche come clima e luogo. Sono arrivato il 28 e ho provato subito l’Odi social (8c+) ma non mi è venuta in giornata. L’1 e il 2 ho salito Estado critico (9a) e l’Odi social, rispettivamente in sette e cinque tentativi. Ho riposato il 3 e poi ho salito ancora Renegoid (8b+) il 4, e Jungle Speed (8c+) il 5. Un tiro boulderoso corto che mi è venuto in due ore.

Per uno che scala prevalentemente su plastica non male… conferma che voi garisti ormai avete un livello assurdo
Abbiamo sicuramente bisogno di una fase di adattamente ma se ti piace la roccia poi ti trovi bene. Dopo qualche attimo di smarrimento non puoi che apprezzare certe linee e certi posti.

Non trovi strano che oggi, con i vostri allenamenti che hanno molte meno “tacche” che in passato per via delle nuove tracciature, su roccia vi troviate ancora meglio che non i garisti anche di pochi anni fa?
Non so, forse il livello medio si è alzato e forse con le nuove prese e volumi comunque abbiamo a disposizione più varietà e adattarci ci è più facile.

Quante prese tocchi alla settimana nei tuoi allenamenti?
Oddìo, non lo so… dovrei pensarci! Faccio spesso due allenamenti al giorno, col riscaldamento di circa 3 ore. Credo intorno ai 600 movimenti in 3 ore, adesso che mi ci fai pensare. Oltre al riscaldamento salgo 7/8 vie difficili quando sono lontano dalle gare, e mediamente 4 dure in tempo di competizione. Questo sulle prese, poi ci sono le parti a secco e di coordinazione.

E boulder?
1h30′ di blocchi, con intervalli brevi… a pensarci, direi sui 200 movimenti. Spesso preceduti da Pan Güllich o lavori di forza pura

Ma adesso hai anche la Speed, visto il sogno Olimpiade…
(Ride). Eh sì, devo farla e mi piace anche, mi arrabbio solo quando sbaglio ma fotunatamente inizio a capirci qualcosa! Un paio di sedute di Speed alla settimana devo inserirle perchè alla gara di qualifica Olimpica di dicembre si accede soltanto se sei fra i primi 20 combinatisti, e vengono presi i migliori due risultati di ogni disciplina, quindi Lead, Boulder e Speed. Adesso comincio a trovarmi abbastanza bene anche in Speed e la sento meno un obbligo, sicuramente per la potenza è anche molto allenante.

E immagino che per la roccia sia chiusa una parentesi
Qualcosa farò ancora, ho un progetto vicino a casa e penso di avere il tempo di provarlo. Con le gare e gli allenamenti gran viaggi non ne posso fare, ma ogni tanto anche per relax la toccherò, e credo sia anche molti utile tecnicamente.

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Rodellar, il climbing e il portfolio del meeting La Sportiva in Spagna

Le foto di Matteo Pavana del meeting dei big atleti La Sportiva tenutosi dal 21 al 23 settembre a Rodellar in Spagna.

Alcuni giorni fa Rodellar, una delle falesie più belle della Spagna e quindi per default una delle più belle al mondo, ha ospitato il tradizionale meeting d’arrampicata al quale hanno partecipato oltre 300 climber di tutto il mondo. nello stesso weekend si è svolto anche il meeting La Sportiva con la sua “famiglia” di super atleti quasi al completo. Tutti grandi nomi dell’arrampicata mondiale come Caroline Ciavaldini, Kilian Fischhuber, Nalle Hukkataival, Jacopo Larcher, James Pearson, Eneko e Iker Pou, Federica Mingolla, Silvio Reffo, Katharina Sauerwein, Roger Schaeli, Patxi Usobiaga, Anak Verhoeven, Jorg Verhoeven, Barbara Zangerl.

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Tra una chiacchierata e l’altra ovviamente non sono mancate delle belle realizzazioni sopra il lento fiume del Mascun, tra cui spiccano le prime libere nel settore La Surgencia di Hashtag Bandits, un ” duro 8c” secondo il primo salitore Jorg Verhoeven, e la bellissima Olympia, 8b+ che porta la firma di silvio Reffo. Riproponiamo l’azione nel nostro portfolio, visto attraverso l’occhio verticale di Matteo Pavana.

Info:www.lasportiva.com

SCHEDA: la falesia Rodellar

Cima Mandron in Dolomiti di Brenta, prima discesa per Roberto e Luca Dallavalle

Il 16/02/2019 Roberto Dallavalle e suo fratello Luca hanno effettuato la prima discesa con gli sci della parete sud di Cima Mandron nelle Dolomiti di Brenta.

Sabato 16 febbraio i fratelli Dallavalle sono stati i primi a sciare una linea molto difficile anche da immaginare sulla parete sud di Cima Mandron, la storica parete che che sovrasta il rifugio Brentei nelle Dolomiti di Brenta. La linea collega tre canali distinti e, mentre la parte alta è visibile dal famoso canalone Neri, la parte centrale e soprattutto quella bassa è costituita da canali trasversali incassati nella parete e difficili da notare in inverno, motivo per cui finora non era mai stata sciata.

Luca Dallavalle ci ha raccontato “Dal Canalone Neri, che ho sciato diverse volte in passato, ho sempre guardato la sud di Cima Mandron chiedendomi se era fattibile con gli sci, in estate questa estetica parete è solcata da diverse importanti vie anche molto difficili, quindi più di tanto non c’ho mai pensato. Circa un mese prima siamo stati sugli sci sugli Sfulmini e da lì ho potuto valutare la possibiltà di poter sciare anche la parte bassa della parete. C’era molta meno neve e non avrei mai immaginato che il canale inferiore fosse sciabile e nemmeno salibile con facilità. Ero quasi sicuro che per sciare quella linea il modo più semplice fosse quello di salire la cima Mandron dal più semplice versante nord e poi sciare la sud effettuando una calata in fondo al canale inferiore.”

Sabato mattina insieme al fratello più piccolo si è avventurato in zona non per sciare la linea ma per fare un giro di ricognizione e valutare le condizioni. “Nei pressi dell’attacco della sud della Brenta abbiamo per caso notato la fattibilità del canale di accesso quindi abbiamo deciso di provare a salire.” I due hanno iniziato a salire tardi, superando in arrampicata una cengia di un 1 metro che sale trasversale per circa 20 metri e dà accesso al primo canale incassato. “Il primo canale è molto stretto 2-3 metri e porta nel cuore della parete, il secondo è il più sciabile e sale in un ambiente fantastico tra guglie e torri, il terzo canale invece è quello più ripido (tratti importanti sui 55°), qui in salita abbiamo superato in arrampicata un salto di 3-4 metri circa di III grado.”

Dopo circa 550 metri di salita sono sbucati in cima verso le 14:00, e dopo circa mezz’ora di riposo hanno iniziato la discesa, seguendo fedelmente la via di salita e disarrampicando quindi per nemmeno una trentina di metri in tutto. “Non abbiamo effettuato nessuna calata, anche perchè non avevamo con noi la corda, come dicevo quella linea non era il nostro obiettivo preciso di quel giorno. Ma più salivamo, più ci rendevamo conto che le condizioni erano ideali e siamo andati avanti, sapevamo che tutti i passaggi potevamo farli anche in discesa.”

Per quanto riguarda la discesa, Luca ci ha spiegato “la linea è molto esposta per tutta la sua interezza, si snoda sopra ad un parete verticale di 2-300 metri e non si può sbagliare in nessun punto, comunque abbiamo trovato condizioni molto buone con il sole che ha mollato per bene la neve. La salita e discesa di sabato è stata una bellissima scoperta, sicuramente una delle più belle discese che io abbia mai fatto.”

FB Luca Dallavalle

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Come ombre sulla vetta: 100 anni della via Chiaraviglio-Berthelet al Corno Piccolo al Gran Sasso

A 100 anni dalla prima salita, Alberto Sciamplicotti ripercorre la storia e la via Chiaraviglio-Berthelet, aperta il 9 settembre 1918 negli ultimi giorni della prima guerra mondiale da Curio Chiaraviglio e Ettore Berthelet sul Corno Piccolo del Gran Sasso d’Italia.

Cento Anni. Ieri (ndr testo scritto il 10/09/18) erano cento anni della prima salita al Corno Piccolo al Gran Sasso lungo l’itinerario aperto da Curio Chiaraviglio e Ettore Berthelet.

Cento anni. Non sono certo pochi. Era 9 il settembre del 1918 e l’avanzata del Piave solo pochi mesi prima aveva messo le basi per la disfatta, sul fronte italo-austriaco, dell’impero dell’aquila bicipite nera. La gioventù italiana tutta aveva partecipato a quell’olocausto, fino al richiamo in armi dei nati nell’ultimo anno del secolo precedente, ragazzini di 18 anni mandati al fronte nelle ultime fasi della guerra.

Curio Chiaraviglio ed Ettore Berthelet nel settembre del diciotto avevano 22 e 24 anni e verrebbe da chiedersi il senso della loro presenza fra le guglie del Corno Piccolo. Non sarebbero dovuti invece stare al fronte come i loro coetanei? Le notizie su Ettore Berthelet che si riescono a rintracciare sono veramente poche. Probabilmente era un appassionato di fotografia, una sua immagina di Bologna appare su un volume fotografico, e probabilmente ha lavorato in ufficio presso il Servizio Centrale di Roma delle ferrovie Italiane. Di Chiaraviglio si sa invece un poco di più, in quanto era era il nipote dello statista Giovanni Giolitti, fatto che subito indurrebbe a pensare a un allontanamento dal fronte dovuto all’intercessione del nonno.
Un imboscato insomma.

In realtà, Curio Chiaraviglio donò alla patria tre anni della sua vita nei combattimenti contro gli austriaci. Gravemente malato passò solo gli ultimi mesi di guerra in convalescenza presso la residenza del nonno. Tutt’altro che un imboscato insomma. Eppure, questo non risolve il mistero. Cosa facevano quei due ragazzi, in quegli ultimi giorni di guerra, di dolore, di sangue sulle cime del Gran Sasso? Perché erano lì? Cosa li aveva condotti su quelle rocce?

Come nato nella seconda metà del ventesimo secolo, la mia esperienza su quel periodo è limitata a quanto appreso sui libri di storia ma, soprattutto, ai racconti dei nonni che direttamente avevano, ognuno a modo proprio, partecipato al primo conflitto mondiale. Così, mi sono arrivate le narrazioni della vita di trincea, dei topi che venivano a mordere calze e piedi dei soldati addormentati nelle brande, dei commilitoni messi di guardia alle postazioni di montagna nelle notti d’inverno e ritrovati la mattina congelati e addormentati per sempre, dell’avanzata del Piave con l’attraversamento del fiume su ponti di barche con sotto l’acqua che scorreva color del sangue, che di sangue dei cadaveri che galleggiavano oramai era per lo più composta.
Ricordo poi le lacrime di mio nonno Giovanni il giorno della parata militare del due giugno, quando il dolore e la sofferenza di quei giorni di guerra, di quello che aveva dovuto subire e ancor più di quello che si era dovuto fare, tornavano prepotenti alla mente.

L’itinerario che sale lungo la cresta del Corno piccolo aperto da Chiaraviglio e Berthelet non è un itinerario difficile. PD+ dice la guida, passaggi di secondo e terzo, forse uno o due passaggi di quarto meno, molti tiri di corda che si possono percorrere in conserva. Eppure, nonostante la bassa difficoltà, è un percorso stupendo, che giunge in vetta accarezzando i diversi versanti del Corno Piccolo con la stessa passione e poesia con cui un amante accarezza l’oggetto del suo amore.

Così, probabilmente, la risposta a quella domanda iniziale è qui che va ricercata. Curio Chiaraviglio e Ettore Berthelet sulle rocce del Gran Sasso di quel giorno di cento anni fa stavano cercando qualcosa che in quel momento in Italia non c’era. Cercavano qualcosa che potesse aiutare a superare la costante presenza dell’orrore, del dolore, della sofferenza che ogni guerra porta con sé. Cercavano la chiave per ricominciare a vivere. Cercavano la poesia e la bellezza.

Ieri, quando siamo arrivati in vetta, chi per l’itinerario di Curio ed Ettore, chi per la ferrata Danesi, chi per uno dei tanti percorsi di arrampicata delle Spalle del Corno Piccolo, una densa nebbia avvolgeva il punto più alto della montagna e tutto era sfumato, soffuso, indefinito. Poteva essere il 2018 come anche 100 anni prima, perché la ricerca che ci aveva portato lì era la stessa di quei due ragazzi in fuga dall’orrore. In questi giorni non c’è una guerra dichiarata, è vero, eppure l’orrore in cui siamo immersi, pur se più strisciante e subdolo, non è per questo meno efferato. E’ qualcosa che racconta ugualmente di disperazione, di morte, di nazioni sull’orlo di qualcosa di indefinito ma che si intuisce ripugnante e di interessi, economici e di potere, che spingono ogni verso un baratro sempre più vicino.

Per questo, sulla vetta del Corno Piccolo, come un cerchio che unisce gli animi più lontani, superando persino i limiti temporali, ci siamo sentiti vicini a quei due ragazzi, uniti a loro da quella stessa tensione che li condusse: la ricerca della poesia e della Bellezza, l’unica salvezza possibile all’orrore del mondo.

Alberto Sciamplicotti, 10 settembre 2018

SCHEDA: Chiaraviglio-Berthelet, Corno Piccolo al Gran Sasso

Peak Lenin: intervista a Luca Montanari

Intervista alla guida alpina XMountain Luca Montanari dopo il successo della spedizione alpinistica in cima al Peak Lenin (7134 m).

Un’altra spedizione conclusa, un’altra cima raggiunta, un sogno diventato realtà per Laura e Danilo, i due alpinisti che, guidati dalla guida alpina della scuola veronese XMountain Luca Montanari, hanno raggiunto la vetta del Peak Lenin (7134 m). Il gruppo è partito il 29 luglio alla volta delle montagne dell’Ak-Sai, in Kirghizistan. La montagna fa parte di uno dei 5 settemila della catena del Pamir. Tecnicamente non difficile, il Peak Lenin rimane tuttavia una montagna molto impegnativa per chi si trova ad affrontare per la prima volta un settemila, pur essendo abituato alle nostre Alpi.

Una spedizione è un grande sogno che si realizza. Come comincia tutto questo?
Le persone che mi contattano hanno già esperienza di montagna. Alcuni conoscono le Alpi, altri sono particolarmente allenati, altri ancora sono alle prime armi e mi contattano perché vogliono cominciare un percorso graduale, per arrivare ad obiettivi sempre più grandi. Ognuno ha una propria storia, un proprio punto di partenza. Per questo è importante conoscersi, fare delle salite insieme, verificare la preparazione. In questo caso, prima di partire sono state realizzate 2 salite al Monte Rosa e al Monte Bianco, con l’obiettivo di conoscersi e di testare i materiali (tende, scarponi, abbigliamento tecnico…), fare delle simulazioni della vita ai campi alti e dormire in tenda. In particolare, l’uscita sul Bianco è stata effettuata una settimana prima della partenza, in modo da arrivare acclimatati meglio alla quota del campo base (3600 m).

Una volta giunti al campo base, com’è stato l’impatto da parte del gruppo?
Il campo base si trova all’imbocco della morena che porta alla base del peak Lenin, su un altopiano di prati verdi circondati da montagne di circa 5000 metri. Uno scenario decisamente diverso dai ghiacciai dei campi base himalayani! Sia il campo base che il campo 1 (4400 m) sono ben attrezzati per offrire il massimo comfort agli alpinisti: docce, wifi, tenda-mensa con i cuochi, tende spaziose per dormire, assistenza medica h24. Insomma, una situazione molto confortevole, che ci è tornata molto utile in più occasioni: infatti, alcuni alpinisti hanno avuto difficoltà legate all’acclimamento e a virus intestinali. Situazioni prevedibili, ma tenute sotto controllo.

Quali sono le difficoltà che hanno messo alla prova il gruppo?
Al di là delle difficoltà fisiche, legate ad una permanenza prolungata alle alte quote, bisogna fare i conti con la resistenza, la motivazione, la concentrazione e la pazienza: insomma, la preparazione mentale conta tanto quanto quella fisica. Come expedition leader, conosco molto bene queste dinamiche e devo saperle gestire, insieme ad una serie di imprevisti che, puntualmente, si manifestano. Diventa fondamentale gestire il ritmo di salita, controllare l’alimentazione e l’idratazione, assicurarsi del riposo e dei giusti tempi di recupero, controllare lo stato di salute e l’acclimamento dai 4000 in su con il pulsossimetro. E’ importante, nei giorni più duri (brutto tempo o condizioni di salute precarie) tenere alto il morale del gruppo e non far perdere mai di vista l’obiettivo.

Si sono mostrati all’altezza della situazione?
Sì. Pur non essendo degli alpinisti esperti, hanno saputo gestire bene le diverse situazioni ed imprevisti. A queste quote, infatti, semplici mansioni – come scaldare la neve per preparare da mangiare ai campi alti, un lavoro a cui li avevo istruiti sulle Alpi – si sono rivelate estremamente gravose. Così come portare i carichi: uno zaino di 10 kg, portato senza grandi sforzi a 4000 metri, alle altissime quote diventa un peso notevole. In questi casi, la motivazione è determinante, ma bisogna essere anche ben allenati ed abituati a stare in ambiente per un lungo periodo.

Li hai preparati a questo tipo di fatica?
Aver scelto con cura il cibo personale per campi alti ha permesso a noi tutti di rimanere in forze fino alla fine, grazie al giusto apporto proteico. Prima della partenza ho consigliato loro quali cibi portare per garantire in quota il giusto apporto energetico e favorire l’appetito. Oltre a vari tipi di barrette energetiche, hanno portato cibi nutrienti e gustosi come formaggio grana, speck, nutella. Dettagli non da poco, considerando che alle altissime quote viene meno l’appetito.

Alla fine, avete raggiunto la cima
E’ stato un percorso ben calibrato dall’inizio alla fine. Tutto ha funzionato alla perfezione: dall’acclimatamento, alla logistica, all’efficienza del team kirghiso. Alla fine, la finestra di bel tempo ci ha permesso di raggiungere la vetta, la mattina del 16 agosto. Siamo partiti alle 4 di mattina dal campo 3. Dopo circa 10 ore di salita per 1100 metri di dislivello, con Danilo e Laura abbiamo raggiunto la vetta del Peak Lenin. Per loro tantissima fatica, ma una soddisfazione ancora più grande, per aver tenuto duro fino in fondo.

Un altro successo per te, come guida. E per XTravels, che ha all’attivo l’organizzazione di numerose spedizioni extraeuropee.
Per me, dal punto di vista professionale è una grande soddisfazione. Dal punto di vista umano, mi riempie di orgoglio il fatto di essere, per queste persone, una possibilità che loro hanno per provare esperienze di altissime quote in spedizioni extraeuropee, andando ben oltre le quote a cui siamo abituati sulle Alpi. Per XTravels è un altro importante traguardo messo a segno grazie alle professionalità di un team preparato e di grande esperienza perché, intorno ad ogni spedizione, ruota una complessa organizzazione burocratica e legata alla logistica che richiede impegno, tempo e preparazione. Oltre a tutte le persone con cui collaboro da tempo, ringrazio Kayland, Montura, Camp Cassin, Erzia Telecomunicazioni e Ferrino, sponsor tecnici che in ogni mia spedizione giocano un ruolo determinante grazie alla qualità dei loro materiali.

Info:www.xtravels.it

Japan to appoint former head of North American affairs as new envoy to South Korea

The government plans to appoint Koji Tomita, the former head of the Foreign Ministry’s North American Affairs Bureau, as its new ambassador to South Korea, diplomatic sources said Wednesday, amid heightened tensions between the neighboring countries over wartime history and trade policy.

Tomita, 61, is set to replace Yasumasa Nagamine. Tokyo has already notified Seoul of his appointment and is awaiting approval, according to the sources.

A career diplomat, Tomita worked at the Japanese Embassy in South Korea starting in 2004. He was ambassador to Israel from 2015 to 2018 and served as Prime Minister Shinzo Abe’s sherpa for the Group of 20 summit in Osaka this year.

According to officials at the Foreign Ministry, he is the son-in-law of the late author Yukio Mishima.

Nagamine, 65, will leave the post in Seoul after a three-year stint that spanned the historic impeachment of President Park Geun-hye and the rise to power of her successor, Moon Jae-in.

In 2017, Nagamine was called back to Japan for several months to protest the placement of a statue representing South Korean ‘comfort women’ who provided sex, including those who did so against their will, for Japanese troops before and during World War II. The statue was placed in front of the consulate-general in the southeastern city of Busan.

The comfort women issue and a disagreement over compensation for South Koreans forced to work in Japanese factories during Japan’s colonial rule of the Korean Peninsula from 1910 to 1945 have continued to weigh on bilateral ties.

In recent months the two countries have tightened export controls against one another, raising concerns that diplomatic tensions are spilling over into the economic realm.

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60% of spent nuclear fuel in Japan to be stored in metal casks in the future, research shows

Over 60 percent of the some 15,200 tons of spent nuclear fuel in Japan could be stored in metal casks in the future, as the cooling pools that currently hold them are filling up, Kyodo News research showed Wednesday.

The survey of utility companies’ plans revealed the potential volume at a time when each firm is looking at dry casks to boost storage capacity for the ever-increasing, highly radioactive byproduct of nuclear power generation.

They believe the leak-tight canisters will be safer than storing the spent fuel in pools. But keeping them in dry cask storage facilities, which do not need water or electricity to keep spent nuclear fuel cooled, will only be a temporary solution.

Analysts say it remains uncertain whether the waste will be taken out for reprocessing and recycling as planned amid technical difficulties and lingering safety concerns following the 2011 Fukushima nuclear crisis.

Residents near the spent nuclear fuel storage sites are worried that the use of dry casks would lead to prolonged storage of the radioactive material.

Currently, the fuel storage capacity of 10 utilities that own commercial nuclear reactors totals 25,500 tons, with 60 percent already filled up. If unspent fuel is included, 69 percent will be occupied.

The 10 utilities’ plans for future storage of spent fuel using dry casks showed that their combined capacity could increase by up to 10,000 tons in the future.

Among them, Tokyo Electric Power Company Holdings Inc., whose Fukushima No. 2 complex holds 1,650 tons of spent nuclear fuel, has decided to build a new storage facility within its premises, while Kansai Electric Power Co., which owns 11 reactors in Fukui Prefecture, plans to find a site to store some 2,000 tons by around 2030.

The Nuclear Regulation Authority has also encouraged utilities to shift storage of nuclear waste from cooling pools to dry casks due to safety considerations.

In the 2011 Fukushima nuclear disaster, which was triggered by a powerful earthquake and tsunami, reactors temporarily lost cooling functions in their spent fuel pools, putting a massive amount of fuel at risk of overheating and exposure.

Meanwhile, a dry cask storage facility, located within the premises of the Fukushima No. 1 plant remained safe, including the containers and the nuclear fuel inside, even though it was flooded by the tsunami.

Tokyo Games’ corporate sponsors begin drills to counter potential cyberattacks

In the run-up to the Tokyo Olympics next year, the sponsors are speeding up preparations to counter cyberattacks.

Hackers hampered the two previous Olympics, taking down a state government website at the Rio Games in 2016 and triggering system failures just before the opening ceremony for the 2018 Pyeongchang Winter Games in South Korea, making it impossible for spectators to print tickets.

At a meeting of senior officials from the Tokyo Metropolitan Government and Metropolitan Police Department in May, Akira Saka, chief information security officer for the Tokyo organizing committee, said it is likely that hackers are preparing “infrastructure” to mount more attacks.

“It is possible that they will first take over systems of related companies and groups and then attack their main targets. The scope of cyberattacks has expanded,” Saka warned.

In June, officials for risk management and information technology affairs from 57 corporate sponsors gathered at an MPD office in Tokyo’s Minato Ward for a cyberattack drill.

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Measures were discussed to respond to a hypothetical situation in which a firm’s website is hacked via an email messsage designed to look like it came from a client.

In this scenario, the virus locks up smartphone users’ devices and leaves a demand for a ransom to unlock them.

“We frequently work with other companies, including client companies,” an official at seasoning maker Ajinomoto Co. said. “I’ve found it necessary to raise awareness of the risks in cyberspace.”

Fujitsu Ltd., which designed the exercise, introduced palm vein authentication at its offices to prevent third parties from invading its computers. It monitors the status of all of workers’ computers and immediately cuts those highly likely to be under cyberattack from its network.

“It’s crucial to build a system that allows us to detect viruses, on the assumption computers are easily infected,” said Taishu Ota, a Fujitsu official with cybersecurity expertise.

Dortmund rejected ‘super club’ offer for Man Utd target Sancho

Borussia Dortmund turned down an offer from a “super club” for Jadon Sancho, according to CEO Hans-Joachim Watzke.

The 19-year-old England international joined the Bundesliga side from Man City for £7million in August 2017 and contributed 12 goals and 17 assists in his debut season.

He was named in the Bundesliga Team of the Year and his form drew interest from a host of top clubs across Europe, including Real Madrid and Manchester United.

It was reported that Sancho was keen on a move to Old Trafford but changed his mind as he wanted to play Champions League football.

Watzke told Ruhr Nachrichten: “A chief of one of the super clubs asked me back in spring if there was a chance [to sign Sancho] but I told him straight away he should forget about it and he never contacted me again.

“He knew I meant what I said.”

Despite consistently rejecting speculation that Sancho will leave Dortmund, Watzke has now conceded that Sancho won’t be at the club forever.

“There aren’t many 19-year-olds with such a potential,” Watzke. “He is also not a player from the region or one who would have any connection to it.

“When you have a player like Jadon Sancho, you must reassess the situation every single year. Everything else would not be honest. If a foreign player is not convinced that the club is right for him at the exact time, it just does not make any sense.”

 

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